Uno degli errori tipici delle analisi, soprattutto – ma non solo – quelle filtrate dai social media, che tendono a ridurre la realtà a una visione dicotomica e polarizzante, a mo’ di derby calcistico con le rispettive tifoserie, è quello di valutare la querelle del giorno ignorando, a un tempo, sia che non si tratti di una fotografia, bensì di un film, di cui quell’episodio rappresenta l’ultimo frame (ultimo solamente in ordine di tempo ché, dunque, verrà cannibalizzato da ciò che succederà l’indomani), sia della capacità di qualificarne eventi e protagonisti secondo la scienza dalla cui ottica prospettica quell’avvenimento viene interpretato. A questa deriva esegetica non sfugge, anzi ne costituisce oggi l’epitome paradigmatica, quanto sta avvenendo in Israele dal 7 ottobre.
Senza nessuna pretesa né di esaustività, né di dogma, cercherò di individuare (almeno) quattro punti chiave per interpretare questi eventi alla luce del diritto internazionale, nelle sue due branche: l’una, dello ius contra bellum (o ius ad bellum) ossia del diritto a ricorrere alla forza armata e l’altra, dello ius in bello (o diritto internazionale umanitario) cioè del diritto dei conflitti armati. Questi punti sono infatti fondamentali per tracciare il perimetro giuridico in cui iscrivere i recenti accadimenti e consistono, in primo luogo, nella qualifica di Israele quale potenza occupante della Striscia di Gaza; secondariamente, nei principî che regolano la legittimità dell’uso delle armi da parte della popolazione di un territorio occupato; in terza battuta, nell’inquadramento del conflitto come interno o internazionale; infine, nei requisiti che la risposta di Israele deve rispettare per essere conforme ai dettami del diritto internazionale. Questi quattro profili costituiscono una sorta di cassetta degli attrezzi minima essenziale, per scomporre e analizzare questo motore inceppato, al fine di ricostruire più compiutamente scenario e contesto, tenuto conto del fatto che il diritto applicabile alle ostilità comprende, oltre alle norme consuetudinarie, le Convenzioni dell’Aja del 1907, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 (ratificate sia da Israele che dalla Palestina) e i due Protocolli addizionali del 1977 (ratificati solamente da quest’ultima).
Il primo punto consiste nel fatto che, al netto del ritiro delle sue truppe dalla Striscia di Gaza, iniziato il 15 agosto del 2005 e terminato ufficialmente il 12 settembre dello stesso anno, Israele, nel prisma giuridico del diritto internazionale, è qualificabile come potenza occupante, alla luce del principio di effettività, vera e propria pietra d’angolo dell’intero sistema, che, nel caso specifico, si concretizza nel controllo e nell’autorità de facto che esso esercita sui tutti i valichi in entrata e in uscita da Gaza nelle tre dimensioni – terrestre, marittima e aerea – dei suoi confini, controllandone (rectius: centellinandone) l’accesso a persone, merci (compresi medicinali), acqua potabile, fonti di energia. In effetti, l’art. 42 del Regolamento dell’Aja del 1907, che ne codifica la definizione consuetudinaria, recita: «un territorio è considerato come occupato quando si trovi posto di fatto sotto l’autorità dell’esercito nemico. L’occupazione non si estende che ai territori ove tale autorità è stabilita e può essere esercitata». È dunque evidente la presenza di truppe sul territorio – che non è proprio menzionata – non sia elemento imprescindibile per il mantenimento dello status di occupazione. D’altronde, la qualifica di Israele quale potenza occupante è condivisa tanto dai principali organi delle Nazioni Unite (Consiglio di Sicurezza, Assemblea Generale, Corte Internazionale di Giustizia), quanto dal Comitato Internazionale di Croce Rossa, nonché dalla Corte Penale Internazionale.
In seconda battuta e in stretto collegamento con il punto precedente, occorre individuare quali siano i principali obblighi e diritti della popolazione sottoposta ad occupazione ai sensi dello ius in bello. In rapida carrellata: 1) la popolazione occupata non ha alcun dovere di obbedienza nei confronti della potenza occupante (cfr. art. 45 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 e art. 68(3) della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949); 2) la popolazione occupata può adoperarsi in ogni modo per veder riconosciuto il suo diritto all’autodeterminazione (cfr. le Risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n.2649(XXV), del 30 novembre 1970, che supporta la legittimità della lotta contro la potenza occupante, nonché la n.35/35, del 14 novembre 1980, che, al punto 2 del preambolo, «riafferma la legittimità della lotta dei popoli […] dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata»); 3) i membri delle milizie e dei corpi di volontari, compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, hanno diritto a essere trattati come prigionieri di guerra in quanto legittimi combattenti (purché rispettino la sommatoria di alcuni parametri: i. e. agiscano secondo una catena di comando con a capo un responsabile; rechino un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; portino apertamente le armi; si uniformino, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi della guerra: cfr. art. 4(A)(2) della Terza Convenzione di Ginevra del 1949); 4) al netto del fatto che manchi nell’ordinamento internazionale una convenzione che vieti il terrorismo tout court (a differenza di tanti altri accordi che hanno come obiettivo la prevenzione e la repressione di altri specifici crimini di respiro internazionale, come ad esempio la tortura o la tratta di esseri umani, con un approccio cd. globale) in quanto gli Stati non sono riusciti a trovare una definizione condivisa di terrorismo, proprio a cagione delle diverse interpretazioni della resistenza contro la potenza occupante, considerata da alcuni Paesi terroristica per definizione, purtuttavia, in talune convenzioni settoriali sul terrorismo, la lotta contro la potenza occupante è espressamente esclusa dal campo di applicazione.
Questo ci porta al terzo punto di snodo: se dunque l’uso della forza agito dalla popolazione occupata sembra poter trovare una base giuridica nel diritto internazionale, vanno individuati i principî dello ius in bello che tale uso della forza deve rispettare per essere legittimo, paletti che in parte mutano a seconda che si inquadri il conflitto in corso come internazionale o interno, posto che il diritto internazionale umanitario contempli regole non del tutto sovrapponibili nei due diversi scenari. Per esempio, se il conflitto fosse qualificato come interno, i combattenti di Hamas potrebbero essere considerati insorti, insorti che, per definizione, laddove catturati, non hanno diritto allo status di prigionieri di guerra; viceversa, se il conflitto fosse qualificato come internazionale, le milizie di Hamas potrebbero essere ritenute membri di un gruppo di irregolari (ma combattenti legittimi), secondo la Terza Convenzione di Ginevra, sebbene, alla luce delle azioni poste in essere da ultimo il 7 ottobre, osti al riguardo, la mancanza di tutti i summenzionati requisiti ivi sanciti, tra cui in primis l’obbligo di uniformarsi nelle operazioni agli usi e leggi di guerra. Ebbene, tanto la dottrina maggioritaria, quanto la prassi giurisprudenziale qualificano il conflitto come internazionale: e ciò appare del tutto logico e condivisibile laddove si ponga mente all’esito paradossale della soluzione opposta che porterebbe la popolazione civile a essere assoggettata, a un tempo, a un doppio binario prescrittivo, ossia al regime giuridico dei conflitti armati internazionali per ciò che concerne l’occupazione tout court e al quadro normativo dei conflitti armati interni avuto riguardo all’uso della forza. In questo contesto, le azioni compiute da Hamas violano senz’altro molteplici divieti del diritto internazionale umanitario, specificamente codificati nel Primo Protocollo Addizionale del 1977, quali, inter alia, quelli posti a tutela della popolazione e delle persone civili dall’art. 51 (§1: diritto alla protezione generale contro i pericoli derivanti da operazioni militari. §2: divieto di essere oggetto di attacchi, nonché divieto di atti o minacce di violenza, il cui scopo principale sia di diffondere il terrore; §4: divieto di attacchi indiscriminati) e dall’art. art. 75(2)(c) (presa di ostaggi).
Dalla violazione di queste regole derivano crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come sancito rispettivamente agli artt. 7 e 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, ratificato dallo “Stato della Palestina” nel gennaio 2015, che è dunque da allora annoverato tra gli Stati-parte della Corte, posto che, è bene ricordarlo, all’esito di un esame, durato ben cinque anni, il 5 febbraio 2021, la Camera preliminare, con decisione presa a maggioranza, ha sancito che la giurisdizione territoriale della Corte nella situazione in Palestina si estenda ai territori occupati da Israele dal 1967, vale a dire la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Se dunque la Palestina, che comprende anche la Striscia di Gaza, nel ratificare lo Statuto della Corte penale internazionale, ha attribuito alla Corte la competenza per giudicare sia i crimini commessi da Hamas sia quelli commessi da Israele, non va dimenticato che purtuttavia Israele non solo non è parte dello Statuto di Roma, ma inoltre inferisce l’incompetenza della Corte poiché la ratifica della Palestina sarebbe nulla non essendo questa, a suo avviso, uno “Stato”.
L’ultimo punto di questo percorso teorico-ricostruttivo è infine quello di capire quale sia l’alveo che la risposta di Israele, volta a tutelare i propri civili (ex art. 43 dei Regolamenti dell’Aja del 1907, secondo cui la potenza occupante ha il dovere di ristabilire l’ordine pubblico e la vita civile in territorio occupato), non deve esondare per poter rimanere nel solco della legittimità secondo il diritto internazionale. Ebbene, va innanzitutto sgombrato il campo dal riferimento al più volte evocato del diritto alla legittima difesa. In effetti, fin dal 2004 (ormai quasi vent’anni fa!) con il Parere sulle Conseguenze giuridiche dell’edificazione di un muro nel territorio palestinese occupato, la Corte Internazionale di Giustizia ha negato che Israele possa invocare l’art. 51 della Carta di San Francisco contro attacchi provenienti da quei territori (cfr. par. 139). Questa soluzione appare del tutto coerente con lo scenario delineato ai punti precedenti: se, infatti, Israele è potenza occupante, l’uso della forza agito nei suoi confronti non può essere qualificato come atto di aggressione, cui si possa rispondere sulla base del droit naturel/inherent right alla legittima difesa, istituto specifico dello ius contra bellum, perché, viceversa, anche la risposta alle azioni poste in essere da Hamas il 7 ottobre u.s. va inquadrata nello ius in bello (quale sistema di regole che, come chiarito dal par. 4 del preambolo del Primo Protocollo Addizionale del 1977, deve essere pienamente applicato in ogni circostanza a tutte le persone protette dalle Convenzioni di Ginevra, senza alcuna distinzione sfavorevole fondata sulla natura o l’origine del conflitto armato, o sulle cause invocate dalle Parti in conflitto, o ad esse attribuite, sistema di regole che dunque si applica a tutte le parti in conflitto). Ma anche laddove si volesse adoperare l’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite quale base giuridica per argomentare la risposta di Israele, in spregio al ragionamento fin qui seguìto, va ricordato che nemmeno il diritto alla legittima difesa può costituire una esimente per le violazioni del diritto umanitario, come espressamente specificato al par. 3 del General Commentary sull’art. 21 del Progetto di articoli sulla Responsabilità internazionale degli Stati per atti illeciti del 2001.
Dunque, nel contesto del diritto internazionale umanitario in generale, e dei conflitti armati internazionali in particolare, la risposta di Israele deve rispettare principî di precauzione, distinzione, e proporzionalità per ogni operazione militare che deciderà di intraprendere nella e contro la Striscia di Gaza. La violazione di tali principî comporta (anche) la responsabilità individuale per crimini di guerra, da parte dei singoli autori materiali, soprattutto – ma non solo – nel caso di bombardamenti indiscriminati. Vanno poi considerati divieti specifici come quello di starvation, ossia di far soffrire la fame ai civili come metodo di combattimento (ex art. 54 del Primo Protocollo Addizionale del 1977), come, viceversa, fa il vero e proprio assedio totale deciso da Israele, posto che non solo la starvation di popolazione civile sia un crimine di guerra ai sensi dello Statuto della Corte Penale Internazionale (art. 8(2)(b)(xxv)) ma che vieppiù la potenza occupante abbia l’obbligo di fornire cibo e materiale medico alla popolazione del territorio occupato se questa non ne è sufficientemente fornita (cfr. art. 55 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 – si badi bene: norma che non prevede nessuna eccezione); il divieto che nega alla potenza occupante la legittimità di azioni volte a sottoporre l’intera popolazione del territorio occupato (i.e. tutti gli abitanti della Striscia di Gaza) a una pena o punizione collettiva per un atto commesso da alcuni suoi membri (i.e. i miliziani di Hamas) (ai sensi dell’art. 50 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 e dell’art. 33 della Quarta Convenzione di Ginevra); il divieto di rappresaglie di guerra, quale l’interruzione dell’accesso all’acqua potabile e alle fonti di energia per tutta la popolazione civile palestinese, considerate contra legem dall’art. 51(6) del Primo Protocollo Addizionale; infine il divieto, in specie nei territori occupati, di trasferimento forzato della totalità o di parte consistente della popolazione civile per poter creare delle zone dove le operazioni belliche possano essere liberamente condotte (ex art. 85(4) del Primo Protocollo Addizionale) come invece disposto dal comunicato del 13 ottobre con cui l’esercito ha ordinato «l’evacuazione di tutti i civili dalla città di Gaza per la loro sicurezza e protezione» (sic!) ingiungendo loro di spostarsi nell’area a sud di Wadi Gaza.
Sebbene questi quattro punti siano ben lungi da completare il quadro d’insieme della pluridecennale vicenda israelo-palestinese, un po’ come quando si inizia a comporre un puzzle, in cui solitamente si parte dalle tesserine che hanno un bordo liscio, sì da tracciare la cornice, entro cui inserire poi tutte quelle dai margini più frastagliati e meno immediatamente percepibili quanto al loro corretto posizionamento, è sembrato opportuno ricostruire questo perimetro, in cui poi concretamente iscrivere tutti gli altri pezzi, per cercare di ottenere una figura di senso compiuto, quantomeno secondo il diritto internazionale.
9 novembre 2023
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Agostina Latino è docente di Tutela dei diritti umani, di Diritto dell’Unione europea e di Diritto delle migrazioni presso l’Università di Camerino. Ha tenuto corsi e seminari in varie università italiane e all’estero in tema di diritto internazionale umanitario. È autrice di varie pubblicazioni sui temi dei diritti fondamentali, del diritto internazionale dell’economia, dei rapporti fra ordinamento internazionale e ordinamento euro-unitario.