Gli attacchi che l’organizzazione Hamas ha lanciato sabato 7 ottobre 2023 su Israele, con razzi caduti sulla città israeliana di Ashkelon (Ascalona) e la contemporanea incursione di oltre mille uomini nel territorio di Israele, a ridosso della Striscia di Gaza, hanno suscitato massima sorpresa e indignazione nella comunità internazionale. Per molti rimane un mistero come Hamas, bloccata in un piccolo territorio che dal 2007 è sotto assedio israeliano – questo è la Striscia di Gaza –, abbia potuto allestire una tale operazione militare. Proviamo qui a riflettere su questi eventi, e sulle reazioni che ne sono seguite, mettendoli in una prospettiva storica, tentando di capire meglio le ragioni dietro la perdita di tante vite, civili e militari. La violenza intorno a Gaza, infatti, non è una novità. È l’intensità degli scontri e il numero altissimo di vittime civili, in particolare dal lato israeliano, a costituire la novità.
Per meglio inquadrare eventi e contesti conviene risalire alla fine dell’Ottocento. Lo faremo riesaminando brevemente il conflitto israelo-palestinese, che ormai si inscrive in una cronologia secolare, tenendo presente tre concetti chiave: «divide et impera», «pogrom» e «asimmetria». La prima espressione rimanda al contesto imperiale a cavallo tra XIX e XX secolo, in cui le potenze europee strinsero le loro alleanze strategiche per indebolire i rispettivi nemici, ma anche a politiche seguite da Israele negli ultimi decenni. Il secondo termine permette invece di capire meglio le dinamiche all’opera il e dopo 7 ottobre in episodi di violenza contro determinate comunità. La terza parola permette infine di cogliere le dinamiche di potere e lo squilibrio nei rapporti di forza tra i soggetti oggi coinvolti.
Alle fonti di cent’anni di instabilità
Alla fine dell’Ottocento, progetti nazionalisti sorti in varie regioni e soprattutto all’interno di grandi imperi in declino agivano per cambiare radicalmente le mappe politiche dell’Europa e del mondo, incrociandosi con le dinamiche dell’imperialismo e del colonialismo europeo. Uno dei crocevia di questi cambiamenti fu il Medio Oriente, porzione di quell’Impero ottomano che era sempre più «il grande malato dell’Europa». Esso divenne uno dei terreni della competizione tra le potenze europee in lotta per il primato mondiale, tanto più prezioso da quando, all’inizio del Novecento, fu scoperta una nuova fonte di energia: il petrolio.
È in questo contesto che si inserì anche un progetto nazionalista ebraico nato in Europa, chiamato sionismo perché prevedeva di costruire (o ricostruire) una patria a Sion, uno dei nomi biblici di Gerusalemme. Era un progetto che nasceva per reagire alla persecuzione subita dagli ebrei in Europa, che affondava le sue radici in un secolare antigiudaismo di matrice cristiana, ma che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento aveva conosciuto una nuova feroce stagione, in particolare in Europa orientale, teatro di terribili violenze di massa (note come pogrom) contro le comunità ebraiche. Il sionismo fu dunque un progetto politico europeo, senza o con solo poco coordinamento con le comunità ebraiche dell’Impero ottomano.
La prima guerra mondiale fu un passaggio decisivo. Nel Medioriente diventato uno dei fronti del conflitto, Francia e Gran Bretagna cominciarono a disegnare il futuro dell’area dopo la sconfitta dell’Impero ottomano. Gli accordi Sykes-Picot (dai nomi dei diplomatici, britannico e francese, che lo siglarono) nel 1916 sancirono l’idea di una spartizione franco-britannica di sfere di influenza nella parte araba dell’Impero ottomano. Ma la ricerca di alleati nell’area, per piegare definitivamente gli ottomani, fece sì che le due potenze europee moltiplicassero le promesse, con esiti contraddittori: ne furono fatte ai nazionalisti arabi (che diedero vita alla grande rivolta in Arabia legata al nome dell’agente britannico noto come Lawrence d’Arabia), ma anche ai sionisti (con la «dichiarazione» del ministro britannico Balfour nel 1917) e persino ai curdi (al termine del conflitto, nell’ambito di uno dei trattati di pace, quello di Sèvres, nel 1920). La politica europea di divide et impera, giocando gli interessi di diversi gruppi uno contro l’altro in vista della costruzione di Stati nazionali, nelle aree su cui intendevano imporre un controllo di stampo coloniale ha dunque lasciato profonde ferite in tutto il Medio Oriente.
Al termine della guerra, dalle spoglie dell’Impero ottomano nacquero Turchia, Libano, Siria, Iraq, Giordania e, più tardi, l’Arabia Saudita. In questo contesto, a rimanere senza uno Stato nazionale furono alcuni gruppi, tra cui i curdi e i palestinesi.
Negli ultimi anni di guerra, dal Cairo, nel 1917, i britannici riuscirono a occupare la ricca città di Gaza (un nodo storico per gli scambi economici tra il Mediterraneo, la penisola arabica e l’India, che spiega il ricco passato archeologico ancora esistente nella Striscia di Gaza) e da lì operarono il ricongiungimento con le truppe arabe-britanniche di Lawrence d’Arabia e dell’emiro Faysal a Gerusalemme. I francesi, più a nord, occuparono invece le regioni che dopo la guerra sarebbero diventate il Libano e la Siria.
La spartizione franco-britannica prevista nel 1916 si realizzò quindi sul campo e poi, all’indomani della guerra, con il cosiddetto sistema dei «mandati internazionali»: ai britannici spettò il controllo della Palestina, chiamata anche «Palestina storica» (Historical Palestine), dove finirono per dare più sostegno al progetto sionista che alla comunità palestinese (fatta di una maggioranza musulmana e una minoranza cristiana). La Dichiarazione Balfour del 1917, richiamata poco sopra, era alla base dell’appoggio britannico alla creazione di una «dimora nazionale» («national home» nell’originale) per il popolo ebraico in Palestina. L’afflusso di ebrei europei verso questa regione aumentò tra le due guerre man mano che la persecuzione nazi-fascista rendeva loro impossibile la sopravvivenza in Europa. In questo contesto, la tensione tra le comunità palestinese ed ebraica salì rapidamente, provocando violenze e attacchi reciproci per accaparrare quel poco spazio a disposizione.
Dopo la seconda guerra mondiale: rapporti asimmetrici
Al termine della seconda guerra mondiale, si aprì una nuova stagione. La Gran Bretagna abbandonò rapidamente gran parte del suo impero (per cominciare l’India nel 1947). In un clima di crescente violenza Londra si disimpegnò anche dalla Palestina, lasciando alle Nazioni Unite la gestione di un piano di spartizione della regione tra ebrei e palestinesi, che avrebbe dovuto determinare la nascita di due Stati.
Il piano rimase però sulla carta: al momento del definitivo ritiro dei britannici, nel 1948, scoppiò infatti il primo conflitto israelo-palestinese. «Guerra d’indipendenza», secondo la dicitura Israeliana; «nakba» (catastrofe) per i palestinesi, estromessi dal 78 percento del territorio della Palestina storica, da cui fuggirono circa 750.000 profughi. Fu in questo momento che la porzione di territorio chiamato Striscia di Gaza prese la forma attuale: lungo circa 41 chilometri e largo 14, allora sotto amministrazione militare egiziana, accolse una parte importante dei profughi. Altri profughi affluirono in Cisgiordania, allora sotto amministrazione giordana, con la città di Gerusalemme divisa tra la parte occidentale sotto controllo di Israele e la parte orientale, inclusa tutta la vecchia città, pure sotto controllo della monarchia giordana.
In seguito alla guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele occupò militarmente Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, che da allora hanno lo statuto di «Territori occupati» secondo il diritto internazionale: zone conquistate con la forza militare in cui la potenza occupante ha degli obblighi secondo quanto stabilito dalle convenzioni del diritto umanitario internazionale. Israele non ammette che i territori conquistati nel 1967 siano tecnicamente «occupati», e insiste sul fatto che siano «contesi» (perché non si trovavano sotto il controllo di una sovranità palestinese). Ma la comunità internazionale è unanime nel riconoscere che Israele è tenuta a rispettare le Convenzioni di Ginevra, in particolare la quarta che protegge le popolazioni civili contro pulizia etnica, punizione collettiva e distruzione di istituzioni di base come l’educazione e la sanità.
Dopo essere stata peculiare della politica imperialista europea, il Divide et impera divenne anche una strategia dello Stato ebraico. I governi israeliani ripresero vari meccanismi legali già usati nell’Impero ottomano e dai britannici durante il Mandato per tenere sotto controllo la popolazione palestinese, tra le altre cose limitando libertà di movimento e imponendo una legislazione «eccezionale» (ovvero leggi «speciali» derogatorie e restrittive rispetto al diritto ordinario), e per continuare a guadagnare nuovi territori. Dall’altro, negli anni Settanta, Israele lasciò che una rete di organizzazioni caritatevoli islamiste si espandesse nella città di Gaza per indebolire il progetto nazionalista palestinese guidato in quel momento da partiti laici, in particolare da Fatah e dal suo leader Yasser Arafat. Al vertice di queste organizzazioni di ispirazione islamica si trovavano uomini come Sheikh Yassin, che sarebbero diventati i leader politici di Hamas al momento della sua formale costituzione come partito nazionalista islamico nel dicembre 1987. Il tentativo israeliano di giocare le fazioni palestinesi l’una contro l’altra ha avuto per esito, indiretto e naturalmente imprevisto, quello di favorire la nascita di Hamas, e in seguito il suo rafforzamento: Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele in carica (e già in questo ruolo dal 1996 al 1999 e dal 2009 al 2021) ha visto infatti nel controllo di Hamas sulla Striscia di Gaza un mezzo per dividere e indebolire i palestinesi.
La Striscia di Gaza, una volta ricca di un hinterland agricolo che andava fino a Bi’r Al-Saba’ (Bersheva), è stata gradualmente accerchiata da Israele con colonie di insediamento che ne spezzavano anche la continuità territoriale, fino al ritiro voluto dall’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon nel 2005. Nonostante questo ritiro, Israele è ancora considerata come potenza occupante a Gaza perché è lo Stato israeliano che controlla tutte le frontiere internazionali attorno alla Striscia, decide di quanto cibo, gasolio e acqua Gaza ha diritto (è questa la base, oggi, delle prime ritorsioni del governo israeliano in risposta agli attacchi di Hamas).
Questa asimmetria in favore di Israele non è solo il risultato del ciclo di guerre arabo-israeliane che si sono succedute dal 1948 al 1973 (l’attacco di Hamas ha coinciso con il cinquantenario della guerra dello Yom Kippur, cercando forse di riprodurne alcuni degli effetti), bensì anche il risultato del processo di Oslo, lanciato nel 1993, quando fu concordata la creazione di una entità di auto-gestione palestinese (non sovrana) chiamata Autorità Nazionale Palestinese (ANP). In quella sede, la visione strategica di Israele fu quella di separare nettamente la popolazione ebraica da quella palestinese, consegnando a quest’ultima delle aree «riservate» dove però la questione della vera autodeterminazione e della sovranità veniva rimandata sine die. L’esito è quello che abbiamo sotto gli occhi oggi: una ANP che controlla solo parte della Cisgiordania (le zone A e B che rappresentano insieme il 40% della Cisgiordania, mentre la Zona C, il 60% del territorio, è sotto controllo militare israeliano), senza essere uno Stato sovrano; una Striscia di Gaza separata che, sin dall’inizio degli anni Novanta, si è ritrovata isolata e segregata – di fatto un enorme carcere a cielo aperto – e, da quando è controllata da Hamas (dal 2007 in seguito alla sua vittoria elettorale del 2006 e un fallito colpo di stato dallo storico partito nazionalista palestinese, Fatah, egemone nella ANP che governa la Cisgiordania) per decisione del governo israeliano è diventata quasi inaccessibile persino ai diplomatici e ai giornalisti stranieri.
La nuova guerra di Gaza: il risultato di una lunga storia di asimmetrie?
In questi due decenni del XXI secolo, Gaza ha finito per rappresentare un condensato particolare di asimmetrie, a partire da uno squilibrio di potere – militare e diplomatico – per cui il governo israeliano ha ampia facoltà di continuare la sua opera di colonizzazione in Cisgiordania e attorno a Gerusalemme.
Il processo di Oslo fu deliberatamente rallentato da parte Israeliana, non soltanto da leader del partito Likud, ormai schierato su posizioni ultraortodosse, come Netanyahu o Ariel Sharon (primo ministro dal 2001 al 2006), ma anche di governi retti dal partito laburista (è sotto il governo laburista di Ehud Barak che, tra 1999 e 2001, esplose il numero di residenti negli insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania). Davanti al rifiuto di riconoscere ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione e a creare uno Stato Palestinese, la popolazione occupata si è ribellata, sin dagli anni Ottanta. In questo contesto, l’uso della violenza contro civili per influenzare la politica (ciò che viene definito come «terrorismo») è stata utilizzata da entrambi le parti. Reciproci – e asimmetrici, dati i rapporti di forza in campo e l’esistenza di un’occupazione militare dei territori palestinesi – atti di violenza al di fuori di una guerra formalizzata hanno ormai una lunga storia.
Hamas viene spesso descritto come l’inventore del terrorismo palestinese. Il salto di scala dalla intifada a colpi di sassi degli anni Ottanta all’uso degli attentati suicidi si realizza anche passando per la falsa partenza del processo di pace dopo il 1993, l’assassinio di Rabin per mano di un estremista israeliano, ed episodi come il massacro di palestinesi perpetrato da un colono israeliano estremista che nel 1994 uccise decine di palestinesi riuniti in preghiera nella moschea principale e storica nella città di Hebron. In reazione qualche mese dopo, nel 1995, cominciarono gli attacchi suicidi di Hamas contro autobus israeliani a Gerusalemme o Tel Aviv.
Si tratta del carattere relazionale del terrorismo e della violenza, legati a – ed esacerbati da – un meccanismo di atto-riposta, non a una presunta cultura terrorista di una determinata popolazione.
L’asimmetria nei rapporti di potere determina anche un’asimmetria nell’uso della categoria «terrorismo». Se nel campo israeliano, e più ampiamente dell’opinione pubblica occidentale, è presentato in modo sistematico come un fatto culturale palestinese, per molti palestinesi, l’occupazione «sistemica», è produttrice di violenza strutturale: terre private sottratte a palestinesi, progetti ebraici di insediamenti, illegali anche sul piano del diritto internazionale, che si realizzano con il finanziamento dei governi israeliani e sotto la protezione dell’esercito. La vicenda israelo-palestinese è punteggiata anche di veri e propri crimini di guerra da parte israeliana, tra cui spicca il massacro di Sabra e Shatila del 1982, dove migliaia di palestinesi furono ammazzati materialmente da falangi libanesi, ma con la complicità di Israele. Per questo nel campo palestinese – ma non solo – si parla di terrorismo di Stato.
Nel discorso pubblico, fioriscono le analogie storiche e tra le tante ci sono quelle legate al termine «pogrom». Avulsi dal contesto, gli ultimi attacchi di Hamas contro centinaia di civili israeliani potrebbero evocare i ricordi di un pogrom antisemita. D’altro canto, qualche mese fa un portavoce dell’esercito israeliano ha usato il termine pogrom a proposito di un episodio di violenza su palestinesi perpetrata da coloni israeliani a Huwara, in Cisgiordania.
Ma il contesto storico è quello di una guerra asimmetrica, risultato delle politiche israeliane di colonialismo d’insediamento che alimentano una cultura di violenza insidiosa, e che intorno a Gaza si combatte da oltre quindici anni: l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU ha registrato circa 6400 morti e 152.500 feriti tra i palestinesi, 308 morti e circa 6300 feriti tra gli israeliani tra 2008 e agosto 2023.
L’unica via di uscita: eliminare l’asimmetria, per un vero processo di pace
Sabato 7 ottobre 2023, Hamas ha lanciato attacchi pianificati che hanno colpito soldati israeliani ma anche ucciso centinaia di civili disarmati e presi in ostaggio altrettanti, suscitando un’ondata di riprovazione in tutta l’opinione pubblica internazionale.
Hamas ha battezzato questi attacchi «diluvio Al-Aqsa», in riferimento alle tensioni che si producono attorno alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme Est. Infatti, da qualche mese, estremisti religiosi israeliani, scortati dall’esercito, circolano tra i musulmani che si recano alla Moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo santo per i musulmani (nel 2000 una «passeggiata» del genere dell’allora primo ministro Sharon innescò la cosiddetta seconda Intifada).
Il bilancio è cupo. Dal punto di vista di Hamas il Diluvio Al-Aqsa ha temporaneamente azzerato l’asimmetria della violenza. Se il governo di Israele continua a dichiarare di combattere contro il terrorismo, questa volta settori della comunità internazionale sono propensi a parlare in termini di guerra tradizionale. È tragico che un riconoscimento di simmetria passi da crimini di guerra e di violazioni contro il diritto umanitario internazionale da parte di Hamas. L’unica via di uscita appare un vero processo di pace basato sullo stop alle armi e all’occupazione e sul reciproco riconoscimento.
Se è vero che in Israele esiste al momento un ampio consenso a favore di una vera guerra contro Gaza, esistono anche importanti e autorevoli voci contrarie, secondo le quali bombardare di nuovo la popolazione a Gaza, come già accaduto nel 2008, nel 2012 e nel 2014, servirà solo ad alimentare la spirale della violenza. Tra gli altri, il giornalista israeliano Gideon Levy, sulle pagine del quotidiano «Haaretz», ha parlato delle corresponsabilità del governo israeliano nella tragedia che ha colpito la popolazione civile israeliana. Il politologo israeliano Neve Gordon ha avvertito del rischio di nuove forme di hybris coloniale da parte di Israele nel caso di una nuova guerra contro Gaza. Nel campo palestinese, molti si rendono già conto che lo scacco inflitto a un esercito che si vanta di essere il migliore al mondo, si profila come una costosa vittoria di Pirro.
L’asimmetria ha prodotto una reciproca negazione di umanità e il dilagare del più spietato cinismo politico, un esito a cui ha contribuito anche la mancanza di immaginazione e di coraggio da parte delle diplomazie occidentali, e di quella europea in particolare.
Mentre i primi giorni di guerra annunciano una violenza spaventosa, un certo numero di voci, palestinesi, israeliane e della comunità internazionale, cercano di farsi sentire: rompere la spirale fermando le armi di entrambi i campi e mettendo fine all’occupazione con un negoziato diretto con i palestinesi. La posta in gioco non riguarda unicamente la questione israelo-palestinese: la normalizzazione dei rapporti tra Israele e paesi del Golfo e del Medio Oriente non appare possibile senza invitare al tavolo dei negoziati una rappresentanza palestinese. All’inizio di questa nuova fase del conflitto, sembrano possibili molti scenari, con esiti assai diversi. Quel che è certo, sulla base dell’esperienza storica, è che asimmetria, diniego di espressione e di umanità, mancanza di politica generano unicamente rancore e radicalismo, violenza e distruzione.
15 ottobre 2023
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Benoît Challand è professore associato di Sociologia presso la New School for Social Research di New York. Si occupa di società civile nel mondo arabo e degli aiuti internazionali in Palestina, su cui ha pubblicato vari libri.