Dopo la fine della guerra fredda, la guerra calda è tornata ad essere lo strumento ordinario di soluzione delle controversie internazionali. L’elenco è lungo: la prima guerra del Golfo del 1991, addirittura “autorizzata” dall’Onu in contrasto con il suo statuto, la guerra della Nato nella ex Jugoslavia e poi contro l’Afghanistan e l’Iraq, le guerre in Libia e in Siria, e poi le guerre minori, nel Nagorno Karabakh, in Georgia, in Congo, nello Yemen, nel Mali e in Myanmar. Il diritto internazionale si è rivelato impotente. Del resto sono soltanto sulla carta anche i tanti diritti universalmente attribuiti a tutti gli esseri umani dalle tante carte dei diritti fondamentali che affollano il nostro ordinamento internazionale: tutte promesse non mantenute, come la pace, non essendo state introdotte le garanzie e le istituzioni di garanzia in grado di attuarle.
Le due guerre in atto – l’aggressione criminale dell’Ucraina da parte della Russia e il tragico conflitto israeliano-palestinese – sono tra loro molto diverse. In comune hanno solo il fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e, inoltre, l’avallo penoso offerto da gran parte del dibattito pubblico alle risposte irrazionali date alle due aggressioni, sulla base della solita tesi dell’inesistenza di alternative.
Nel caso della guerra all’Ucraina, la tesi dominante è stata l’inesistenza di alternative all’invio di armi agli aggrediti. L’alternativa invece esiste ed è sempre esistita. La Nato non ha fatto nulla per impedire l’aggressione russa che aveva previsto da mesi, quando sarebbero forse bastate a impedirla concrete assicurazione sulla sua volontà di non espansione. E neppure ha fatto nulla per affiancare l’Ucraina in una trattativa di pace. L’alternativa è del resto prevista ed imposta dalla Carta dell’Onu, il cui art. 51, dopo aver stabilito che ogni “Membro delle Nazioni Unite” ha “il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso abbia luogo un attacco armato”, aggiunge: “fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace”. Una misura necessaria, di fronte al terribile pericolo di una degenerazione del conflitto in una guerra atomica più volte minaccia da Putin, avrebbe potuto essere, e dovrebbe essere tuttora, l’immediata convocazione, su iniziativa di uno o più paesi, di una Conferenza internazionale di pace, oppure della riunione in seduta permanente, onde rendere il mondo consapevole della gravità del momento, del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale dell’Onu, quali luoghi istituzionali nei quali discutere le condizioni della pace.
E’ invece prevalsa la corsa al riarmo, in attesa delle prossime guerre e di un nuovo pericolo di catastrofe nucleare. A questa corsa al disastro contribuisce la pressione degli apparati militari e industriali, che alla produzione, alla vendita e all’accumulazione di armi sempre più micidiali sono i soli interessati. Del resto la produzione e il mercato delle armi convenzionali stanno provocando ogni anno centinaia di migliaia di omicidi, suicidi e infortuni. Basterebbe mettere al bando tutte le armi da fuoco – la loro detenzione, il loro commercio e la loro produzione – per realizzare, con il monopolio pubblico della forza, la civile e pacifica convivenza e porre fine al massacro da cui traggono profitto solo i produttori di armi e il ceto politico con essi colluso e talora corrotto.
Quanto all’aggressione terroristica di Hamas, il governo israeliano ha risposto con i bombardamenti sulle popolazioni civili e perfino sugli ospedali, con il massacro di migliaia di persone innocenti e l’assedio disumano di Gaza e dei suoi milioni di abitanti, lasciati senza i mezzi più elementari di sussistenza, anziché con l’asimmetria e la capacità delegittimante del crimine che avrebbe avuto il rispetto del diritto internazionale nell’uso pur necessario della forza. Ha risposto, in breve, non solo con la guerra ma con una lunga serie di crimini di guerra. Di qui la crescita degli odi e delle vendette, della volontà di distruzione e della disumanizzazione reciproca, che non potrà che portare ad altre tragedie in una spirale senza fine.
Per la sicurezza di Israele, oltre tutto, questa risposta è letteralmente autolesionista. Potranno essere uccisi tutti i capi militari di Hamas scovati a Gaza, ma non i capi politici che vivono al sicuro nel Qatar o in Iran. I massacri di oggi varranno ad allevare i nuovi terroristi di domani. Crescerà nel mondo la vergogna dell’antisemitismo, il rafforzamento di Hamas sia all’interno del popolo palestinese che del mondo islamico e il pericolo di una strage degli ostaggi.
Questa perversa insensatezza solleva una questione di fondo: la differenza, essenziale se vogliamo porre un limite alla guerra, tra atti di guerra e atti criminali. Sono infatti diverse, anzi opposte, le risposte che la nostra civiltà giuridica ha apprestato nei confronti dei due fenomeni. A un atto di guerra si risponde con la guerra. A un crimine, sia pure gravissimo, si risponde con il diritto. L’aggressione atroce del 7 ottobre non è stata un atto di guerra, essendo la guerra, come insegnano tutti i classici del diritto internazionale, solo tra Stati ed eserciti regolari: “publicorum armorum contentio” la definì nel 1588 Alberico Gentili. Quando l’aggressione proviene da forze armate non statali – quale che sia il giudizio politico o morale, perfino di adesione, che ciascuno può formulare su di essa – ci troviamo di fronte a una violenza criminale. E’ una convenzione, naturalmente, come lo sono tutte le nozioni giuridiche. Ma è essenziale, tuttavia, a preservare l’asimmetria tra l’inciviltà del crimine e la civiltà del diritto. Fu infatti un enorme regalo al terrorismo chiamare la terribile strage delle Due Torri dell’11 settembre 2001 “atto di guerra”, anziché “crimine” efferato, e così rispondere ad essa con ben due guerre, contro l’Afghanistan e contro l’Iraq, i cui unici effetti sono stati centinaia di migliaia di morti, la nascita dell’Isis e lo sviluppo del terrorismo jihadista, divampato da allora in tutto il mondo ed elevato, come aspira qualunque banda terroristica, al rango di uno Stato in guerra.
Ma la politica non ha imparato nulla dalle tragedie del passato. E’ così che, di nuovo, è stato un regalo di Netanyahu ad Hamas qualificare come guerra i suoi eccidi terroristici e rispondere ad essi non solo con la guerra, ma con i crimini di guerra, i quali hanno non solo annullato l’asimmetria tra le istituzioni politiche e le attività criminali, ma hanno abbassato le prime al livello delle seconde. Ben altra sarebbe stata l’efficacia di una lotta al terrorismo condotta con un uso adeguato della forza ma finalizzato, come avviene con i fenomeni criminali, soltanto a colpire i colpevoli. Non si sarebbe prodotta l’identificazione del popolo palestinese con Hamas e del popolo israeliano con il fondamentalismo di Netanyahu e si sarebbero poste le premesse non soltanto della pace ma di una soluzione politica della questione palestinese.
Purtroppo quanto sta accadendo sta mostrando non soltanto il fallimento del diritto internazionale ma il crollo della ragione, sia giuridica che politica. Il fallimento dell’Onu si deve alla sua impotenza. La sua Carta statutaria dichiara ripetutamente la finalità della pace. Ma non ha introdotto nessuna garanzia a sostegno di questo edificante principio, che ha invece contraddetto riconoscendo la sovranità degli Stati e quindi il loro potere di fare la guerra. La sola garanzia efficace di qualunque patto di convivenza pacifica – è l’insegnamento di un filosofo realista come fu Thomas Hobbes – è il disarmo dei consociati, in questo caso degli Stati, la messa al bando delle armi, a cominciare dalle armi nucleari, lo scioglimento degli eserciti nazionali auspicato più di due secoli fa da Immanuel Kant, e il monopolio della forza in capo all’Onu e alle polizie locali.
Ma lo stesso discorso vale per le altre sfide globali dalle quali dipende il futuro dell’umanità: il riscaldamento climatico, la crescita delle disuguaglianze sempre più visibili in un mondo interamente interconnesso, lo sfruttamento selvaggio del lavoro e il dramma dei migranti. Le tante carte dei diritti umani che affollano il nostro diritto internazionale promettono a tutti uguaglianza, libertà, salute, istruzione e difesa dell’ambiente naturale. Ma non hanno previsto le funzioni e le istituzioni di garanzia necessarie ad attuarle: un servizio sanitario e un servizio scolastico mondiali, un reddito di base universale, un demanio planetario dei beni vitali della natura, un fisco globale di carattere progressivo. Solo la rifondazione della Carta dell’Onu e delle tante carte dei diritti – in breve, una Costituzione della Terra – con cui venga pattuita ed imposta la costruzione di tali istituzioni globali di garanzia può salvare l’umanità dall’auto-distruzione. Non è un’ipotesi irrealistica. E’ la sola alternativa razionale e realistica a un futuro altrimenti inevitabile di catastrofi planetarie.
Intervento letto alla manifestazione “Ripudiamo la guerra”, Lucca, 18 ottobre 2023.