Carl Schmitt, com’è noto, non era un pacifista e vedeva nella contrapposizione assoluta fra amico e nemico la radice stessa della politica. Ma contestava le teorie della guerra giusta: “Non esiste uno scopo razionale, né una norma così giusta, né un programma così esemplare, né un ideale sociale così bello, né una legittimità o una legalità che possa far apparire giusto che gli uomini si ammazzino a vicenda”1. Riteneva inoltre che, in una precisa fase storica, il diritto internazionale fosse riuscito a limitare la guerra: fra il XVI e il XIX secolo gli Stati europei, pur riconoscendosi reciprocamente il diritto di fare la guerra, avevano introdotto norme che ne regolamentavano i modi e prescrivevano la condotta dei combattenti. Certo, non c’era un’entità superiore dotata del monopolio della forza che accertasse le violazioni del diritto e comminasse sanzioni. Ci si trovava in “una situazione anarchica”, ma non si trattava di “una situazione priva di diritto”2. L’“ordinato misurarsi delle forze, che si svolgeva di fronte a testimoni in uno spazio delimitato” era “il contrario del disordine”, anzi era “la forma più alta di ordine di cui le forze umane siano capaci”3.
In effetti nel corso dei secoli si sono prodotte norme consuetudinarie e sono stati sottoscritti trattati internazionali, come le Convenzioni dell’Aja del 1907 e le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949. È stato vietato l’uso di determinate armi, definiti gli obblighi delle potenze occupanti e i diritti dei popoli occupati, vietate l’uccisione intenzionale dei non combattenti, la riduzione alla fame delle popolazioni, le punizioni collettive, vietato l’attacco al personale sanitario e agli ospedali, affermato il principio di proporzionalità fra gli scopi delle azioni belliche e le uccisioni e distruzioni che ne sono effetto.
Schmitt condivide una visione eurocentrica con i padri fondatori ottocenteschi del diritto internazionale, per i quali esso esprime “la coscienza giuridica del mondo civile”: è un frutto della civiltà europea e non può essere automaticamente applicato al di là della sua sfera4, ma aggiunge una terribile precisazione. Secondo Schmitt la limitazione della guerra è stata possibile soltanto nell’ambito degli Stati cristiani europei e proprio in quanto essi hanno definito il loro spazio escludendone il resto del globo. L’Europa è la “sfera della pace e dell’ordine”5. Oltre la linea che la delimita si dà un “libero e spietato uso della violenza”: il mondo esterno è terra di conquista, vige il diritto del più forte e dell’occupazione effettiva. Questo, sottolinea, “significa un enorme sgravio della problematica intraeuropea”6 . Insomma: la limitazione della guerra in Europa era possibile in quanto lo sfrenamento della violenza oltre la linea aveva assunto questa funzione di sgravio.
In questa prospettiva la successiva inclusione del Giappone, degli Stati Uniti e poi dei restanti Stati americani, asiatici e africani, ha significato l’“abdicazione del diritto internazionale” che ha lasciato subentrare “un caos senza alcuna struttura, che non era più capace di alcuna limitazione della guerra”7. Schmitt considera i tentativi di realizzare istituzioni sovranazionali e di criminalizzare la guerra di aggressione un regresso che introduce una “nozione discriminatoria di guerra”, di fatto il ritorno della teoria della guerra giusta, e rende impossibile la sua limitazione. Non c’è bisogno di seguirlo in questa direzione, anche se va riconosciuto che sentirsi titolari della “giusta causa” può portare a un allentamento dei freni nel modo di conduzione della guerra.
Ma non va persa, in questo quadro, un’osservazione inquietante relativa alla guerra di occupazione dell’Etiopia condotta dall’Italia fascista. Le armate comandate da Badoglio e Graziani hanno massacrato i civili e fatto ricorso sistematicamente alle armi chimiche. Più in generale, si è trattato dell’aggressione di uno Stato membro della Lega delle Nazioni ai danni di un altro Stato membro. Ma le sanzioni comminate dalla Lega sono state inefficaci e di lì a poco, su iniziativa britannica, l’annessione è stata riconosciuta. “Forse nel caso dell’Etiopia continuava ancora a valere in modo inconscio la distinzione del diritto internazionale europeo precedente, secondo cui le guerre condotte sul territorio non europeo erano estranee al proprio ordinamento, e l’Africa era vista come suolo coloniale”8, commenta Schmitt.
Schmitt, giurista del Terzo Reich e antisemita inossidabile, non deve essere molto popolare in Israele e i paralleli storici sono sempre rischiosi, ma viene da chiedersi se questa inconscia discriminazione non continui a valere anche oggi. Gli Stati occidentali hanno giustamente condannato le atrocità commesse dai miliziani palestinesi negli attacchi del 7 ottobre, hanno aggiunto che la reazione di Israele è giustificata e che lo Stato ebraico ha diritto a difendersi, ma il successivo richiamo al suo obbligo di rispettare il diritto internazionale è stato in genere assai flebile. Soprattutto, non si sono viste le possibili azioni per interrompere il perpetrarsi dei crimini di guerra. Tutti i principi del diritto internazionale umanitario – distinzione fra obiettivi militari e civili, necessità, umanità, proporzionalità fra vantaggio militare e “danni collaterali”, precauzione – sono violati. Mentre Gaza è isolata, senza energia elettrica e carburante, il suo popolo ridotto alla fame e alla sete e privo di medicinali, i civili sono bombardati e costretti all’esodo verso spazi di nuovo bombardati, gli ospedali, le scuole e i luoghi di culto vengono attaccati, giornalisti e operatori sanitari uccisi, le violenze dei coloni in Cisgiordania impunite e fomentate, gli Stati Uniti continuano a finanziare Israele e a fornire armi e munizioni, e l’Unione Europea non mette in questione il suo partenariato economico e politico con Israele.
Ai civili palestinesi non va molto meglio che agli etiopi di Areri e dell’Amba Aradam gasati dalla Regia Aeronautica, o ai pazienti e al personale degli ospedali di Malca Dida e Quodam. Del resto, nelle parole dei leader politici e militari di Israele ritorna anche la ferinizzazione dell’avversario (“animali umani” nelle parole del ministro della difesa Gallant).
Per Habermas le intenzioni genocidarie possono venire attribuite solo a Hamas. Eppure il presidente israeliano Herzog ha sostenuto che per il 7 ottobre è responsabile l’intera nazione palestinese, scagliandosi contro la “retorica dei civili non consapevoli, non coinvolti”. L’IDF ha annunciato che ogni civile che non evacua dalla parte settentrionale di Gaza sarà considerato combattente. E la ministra dell’intelligence Gamliel persevera con il suo piano di “reinsediamento volontario” (leggi deportazione) di due milioni di Gazawi verso altri paesi, possibilmente finanziato dalla comunità internazionale. Non c’è da stupirsi che di “genocidio in divenire” parli un documento sottoscritto da special rapporteurs ed esperti delle Nazioni Unite, che ricordano espressioni come “distruzione totale” e “cancellazione” di Gaza, il bisogno di “finirli tutti” e spingere i Palestinesi nel Giordano. Persino l’ex procuratore della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha usato il termine genocidio9.
Dopo la guerra l’Italia repubblicana si è rifiutata di consegnare Badoglio e Graziani all’Etiopia perché venissero processati per i loro crimini di guerra. I reati commessi nei territori palestinesi occupati sono stati denunciati alla Corte Penale Internazionale fin dal 2009. I procuratori hanno temporeggiato in attesa del chiarimento sullo status della Palestina; quello attuale, Karim Khan, si è fatto vedere al valico di Rafah, in Israele e in Cisgiordania e c’è da sperare che si impegnerà con la stessa determinazione per indagare sulle azioni del 7 ottobre “ripugnanti per ogni persona che crede in Dio” come sulle violazioni degli “obblighi giuridici che Israele è tenuto ad adempiere secondo le norme dei conflitti armati”. Purtroppo nei suoi comunicati si notano significative differenze. Gli attacchi del 7 ottobre “rappresentano uno dei più gravi crimini internazionali che sconvolgono la coscienza dell’umanità”. Le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte di Hamas e degli altri gruppi armati continuano, ma la risposta di Israele “è soggetta a chiari parametri giuridici che regolano i conflitti armati”. I civili hanno diritto al cibo, all’acqua, alle medicine, i luoghi di abitazione, di culto e di istruzione devono essere protetti e viene ricordato l’orrore delle operazioni sui bambini senza energia elettrica e anestesia. Ma per i palestinesi si usano le espressioni “war crimes”, “ongoing violations of international humanitarian law”, “unlawfully”, mentre per Israele le formulazioni rimangono dubitative od ottative (il dovere di rispettare il diritto internazionale umanitario).
Dopo decenni di retorica sulla responsibility to protect e di “interventi umanitari” che dovevano rispondere a imperativi morali anche in deroga alle norme del diritto internazionale e al mandato delle Nazioni Unite (un esempio per tutti: la Yugoslavia nel 1999), neppure si ipotizza una qualche missione per fermare il massacro di Gaza, per non dire delle aggressioni omicide in Cisgiordania. Schmitt parlava della “dialettica spesso sorprendente” connessa all’idea di umanità10 e citava Proudhon: “chi dice umanità cerca di ingannarti”11. C’è chi lo considera “un avversario da cui imparare”12, e forse non ha torto.
22 dicembre 2023
Note
1 C. Schmitt, Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 133.
2 C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Milano, Adelphi, 1991, p. 173.
3 Ivi, p. 228.
4 Cfr. M. Koskenniemi, Il mite civilizzatore delle nazioni, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 15-122.
5 C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 98.
6 Ivi, p. 93.
7 Ivi, p. 297.
8 Ivi, p. 310.
9 È il caso di ricordare che nel 2009 la Palestina aveva accettato la giurisdizione della ICC. Nonostante agenzie indipendenti avessero prodotto evidenze di crimini di guerra – ad esempio la commissione Goldstone delle Nazioni Unite relativa a “Piombo fuso” – Ocampo, allora in carica, ha deciso di non decidere in attesa di chiarimenti sullo status della Palestina e sul suo territorio, peraltro richiesti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e a quella degli Stati membri della ICC, organismi politici, anziché agli organi giurisdizionali della Corte.
10 C. Schmitt, Il Nomos della Terra, cit., p. 107.
11 C. Schmitt, Le categorie del politico, cit., p. 139.
12 C. Mouffe, The Democratic Paradox, Verso, London-New York, 2000, p. 57.
Luca Baccelli è Presidente di Jura Gentium e professore ordinario di filosofia del diritto all’Università di Camerino. Tra i suoi libri, Il conflitto sociale (2023), Bartolomé de Las Casas. La conquista senza fondamento (2016), I diritti dei popoli. Universalismo e differenze culturali (2009).